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Paolo Capelletti


Lo sguardo pigro delle cose

 

 

Una delle misure più ovvie per osservare il cambiamento della storia sono gli oggetti, le cose. Le cose si depositano nel mondo di chi le ha prodotte, acquistate, usate, consumate, abbandonate e dimenticate. Vivono questa loro vita, ognuno con la sua storia ma tutti con una pigrizia simile. È la pigrizia del tempo che scorre su di loro, un tempo patito dalle cose che alla fine ci racconta del tempo che subiamo, a cui abbiamo diritto, che lasciamo venire su di noi e portarci via.

Se si parla di tempo si parla già sempre di fotografia. Questi scatti provengono da quel cristallo temporale in cui le cose sembrano ferme, immobili, eppure cambiano, un attimo dopo l'altro. Sarebbe miope giudicare questo cambiamento come un semplice decadimento: bisogna ricordare che la morte non ha effetto sulle cose. Nelle cose lì deposte e abbandonate, in questo evidente disordine, in questo accumulo entropico di piccole catastrofi, le cose sono tuttavia indifferenti al loro destino. Piuttosto, siamo noi che lo vediamo. E siamo noi che, abituati a passare lo sguardo su queste cose senza accorgercene, una volta visto il loro destino, non possiamo più ignorarlo. Finirà per perseguitarci perché, alla fine, andare incontro al loro destino pigramente, nel silenzio, è il modo in cui le cose devono sbatterci in faccia la morte, la nostra.

Tempo e morte. Se non è questo, la fotografia, allora cos'altro? Guardare le cose accese una accanto all'altra, una sopra l'altra, una dentro l'altra è ciò che anima questi scatti di Federico Pacini. Questi sguardi che, distratti, ci mettono improvvisamente a fuoco e ci concentrano su un dettaglio, su un'apparizione, su una convivenza improbabile ma realizzata di oggetti e ambienti. E senza fatica, con l'indifferenza e la pigrizia con cui gli uomini fanno le cose, le sposano, le credono nuove per sempre. E quando le rivedono, come accade in questi scatti, scoprono che le cose restituiscono il loro sguardo e denunciano la loro indifferenza, la loro pigrizia, la loro morte.

Il vero potere di queste fotografie, in fondo, non sta tanto nella mortalità che rendono visibile quanto piuttosto nel dimostrare che non c'è giudizio etico in questo sguardo che le cose ci restituiscono: semplicemente sono lì, lì ci riguardano, con un atteggiamento né buono né cattivo ma insuperabile: l'atteggiamento che appartiene allo stile più intimo delle cose prodotte dagli uomini, il kitsch. Il kitsch è il linguaggio che parlano sempre le cose che gli uomini creano e poi dimenticano: il linguaggio degli accostamenti improbabili e brutti, il linguaggio delle differenze e del disordine inconciliabili, il linguaggio di ciò che non vuole (e non può) essere migliore o peggiore ma che può (e quindi vuole essere) solo vero.

Questa consapevolezza, questo modo in cui le cose ci guardano, i nostri occhi maturano molto prima delle nostre parole e dei nostri pensieri. Allo stesso modo, queste fotografie arriveranno sempre in anticipo su ogni riga che vorremmo dedicarle. L'ultimo consiglio, quindi, è di farci guardare e aprire il loro mondo, generarlo nel nostro sguardo, farci vedere lo stile delle cose che ci vedono.

 

Montichiari, 23 gennaio 2022

 

 

Stile, 2022 (89books)